Un pomeriggio assolato pesa sui vicoli stretti e polverosi di una Palermo del XII secolo. Dalle case ammassate l’una all’altra, dove convivono gomito a gomito siciliani, normanni, arabi ed ebrei, si alzano profumi pungenti e aromi deliziosi che solleticherebbero anche l’olfatto più sopraffino.
Un vociare di donne che si rincorre di porta in porta è come una melodia che ipnotizza, mentre un nugolo festante di bambini si rincorre andando dietro a una palla di pezza, costruita con tanto ingegno e pazienza.
Bambini di diverse etnie giocano insieme in una Palermo tollerante.
Tra essi spiccano i capelli dorati di uno di loro: riccioli perfetti dal colore del grano maturato al sole che ricadono sul visino dalla pelle eterea e incorniciano gli occhi di un azzurro intenso e profondo, senza confini, come sarà la sua gloria.
È un bambino dal carattere forte e coraggioso, un capo predestinato, che tiene testa a tutti, in ogni occasione.
È un bambino che non ha una casa in questi vicoli, ma qui sta crescendo: da tutti è amato, protetto, allevato ed educato.
È un bambino accudito dalle generose donne del popolo di Palermo che non gli rifiutano una scodella di cibo e fanno a gara per averlo al loro desco.
Lo tirano su come se fosse un altro dei loro figli; sono donne semplici, che non fanno tante domande anche se sanno e che, quando serve, lo richiamano e lo rimproverano.
È un bambino felice e spensierato, ma anche un bambino di temperamento, che sa bene chi è e che cosa vuole nella vita.
Ha un amico vero e fidato tra tutti gli altri del gruppo: è Giovanni il Moro, allo stesso tempo così diverso da lui ma così affine, con cui bighellona a lungo e combina le marachelle più inconfessabili.
La mamma di Giovanni è quella donna a cui il nostro bambino è sicuramente più legato e che vuole bene come ne voleva alla sua di mamma, che lo ha lasciato solo ad affrontare il mondo morendo quando lui aveva solo tre anni.
Per lei era stato il suo tutto.
Lo aveva amato dal primo momento in cui aveva capito che una vita albergava nel suo grembo, nonostante tutti i medici e il consorte stesso dubitassero che potesse rimanere incinta alla sua età.
Fu proprio il consorte a pretendere che, alla vigilia di un parto che si preannunciava difficile, lei lo raggiungesse: voleva assistere alla venuta al mondo del suo erede maschio legittimo ed evitare qualsiasi possibile misfatto da parte di quella moglie a cui non aveva mai creduto, che trattava con freddezza e con distacco, ma da cui una forza magnetica e ammaliatrice lo attirava altrettanto morbosamente, tanto da farlo stare male fisicamente quando ne era lontano.
La sposa si era messa in viaggio per accontentarlo, ma le doglie l’avevano sorpresa lungo il tragitto, ancora troppo lontana da lui. Così, affinché il marito non dubitasse della paternità del suo nascituro, decise di partorire in pubblico, in una tenda, davanti alle donne del paese in cui era stata costretta a sostare.
Morendo, quella stessa donna si era raccomandata a quel figlio amato di essere tenace e valoroso: promessa che lui non dimenticò mai e che mantenne.
Il giorno dopo il Natale in cui cadeva il suo quattordicesimo compleanno, Federico (questo era il suo nome, sebbene sua madre Costanza lo avesse sempre chiamato Costantino per affermare che era solamente suo) lasciò i vicoli di Palermo tra le lacrime delle donne che lo avevano cresciuto, non prima che la mamma di Giovanni il Moro lo avesse abbracciato un’ultima volta come se fosse ancora il suo bambino piccino e bisognoso di protezione.
Federico lasciò i vicoli di Palermo per andare a rivendicare il suo posto nel mondo acquisito per diritto di nascita.
Costui sarebbe divenuto l’imperatore Federico II di Svevia, ma per Palermo rimane Federico, uno di noi.
La sposa normanna, Carla Maria Russo
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