Anche tu, come altre, hai ormai raggiunto l’età in cui la trasgressione l’ha già fatta da padrona e hai trasgredito ciò che dovevi trasgredire. Rompere le regole è l’unica regola che hai sempre rispettato: partner, domicili e impieghi sono stati legami, mai catene. C’è già stato il troppo alcol, il troppo fumo, il troppo in generale. Serviva a sopportare un quotidiano che si ripeteva tutti i giorni. La miglior droga possibile sul mercato, in quanto legale e gratis, è stata l’Amore Romantico: fremiti sotto pelle, in testa leggerezza, farfalle nello stomaco, lucciole subito spente nel palmo del la mano, una dose e poi un’altra, una e ancora un’altra, un lungo rosario di nomi, senza che il Cielo mai ti ascoltasse, fino a quando, con il passare del tempo, l’orizzonte è stato così “open” e “free” da provocare vertigine. Quale scopo dare all’esistenza, hai domandato al tuo riflesso nel Negroni.
Nel cammino verso i quarant’anni, Bea si ritrova con un corpo che ha già intrapreso la via del decadimento; il fatto che il puntare verso il basso del proprio seno sia un processo naturale non rende la scoperta meno inquietante. All’improvviso per Bea cambia la prospettiva, cambiano gli assi dei desideri e degli obiettivi. Bea vuole l’amore, all’improvviso. Ma non un amore qualsiasi: Bea vuole l’Amore Assoluto. Bea è single e si mette in testa di avere un figlio. Affronta la questione con lo stesso pragmatismo con cui per anni ha evitato una gravidanza, schivando unioni che si sfasciano per motivi imperscrutabili e puntando dritta alla banca del seme Human, che dispone di un pratico sito internet dove è possibile scegliere il donatore ed effettuare il pagamento. Fare un figlio è meno complicato, se hai una carta di credito collegata a un bel gruzzolo. Perfino l’inseminazione va a buon fine al primo colpo. È proprio fortunata, Bea.
Eppure il romanzo di Silvia Ranfagni è iniziato, poche pagine prima, con una dichiarazione di estraneità nei confronti di quel figlio tanto desiderato (e, tutto sommato, ottenuto abbastanza facilmente), che si inserisce nella sua vita come un despota, un occupatore ostile, un esempio spietato di dipendenza:
Il Corpo è meschino. Vuole solo la sopravvivenza. Cemento, inquinamento, insolazioni, irritazioni, tutto gli dichiara guerra. Per lui è sempre troppo caldo o troppo freddo, per lui si mettono e si tolgono uniformi. Il grido del Corpo ferisce. A volte è per il sole cattivo, la sete, la fame; a volte non si sa proprio perché. Sterilizzare, disinfettare, lavare, anche in mezzo alla notte, anche quattro volte prima dell’alba, perché il Corpo pesa tre chili ma ha zero grammi di compassione.
Perché? Perché la maternità è diversa da come ce la raccontano, ce la promettono, ce la impongono? Sì, certo. Ma c’è anche molto altro, nel romanzo di Silvia. Bea è alla ricerca di senso, vuole sentirsi completa e compie un gesto che la scomporrà in mille pezzi. Avere un figlio è un’espressione ingannevole: nessuno possiede un figlio. Un figlio ti ha, semmai. È una questione di dare, riflette la protagonista. Non si fa un figlio per curarsi – per quello ci sono l’analista Cento Euro e le sue medicine, ma in fondo falliscono anche loro nell’impresa – e Bea lo scopre a sue spese. Ingenti. La repulsione per le altre mamme, quelle che non sanno più parlare la lingua degli adulti ma un idioletto fatto di abbreviativi a raffica larga, è schiacciante solo quanto la rabbia, la delusione, la stanchezza che questo essere umano ha portato nella sua casa. Eppure Bea riesce a capire che il Corpo le sta svelando anche delle ombre, del non detto, della reticenza di cui nessuno aveva osato parlarle. E si mette alla ricerca di una tata che possa accudire lui e sostenere lei.
Silvia Ranfagni si addentra in questa storia che potrebbe sembrare un campo minato con la leggerezza dell’intelligenza e l’umorismo della sensibilità: rovescia i luoghi comuni e ne fa materia di risata, scova l’empatia e la cristallizza in uno strumento prezioso per mettersi in una posizione d’ascolto e non di giudizio, di cui tutti avremmo bisogno (figuriamoci una neo-mamma).
Lo scontro tra una donna e la maternità non è l’unico del romanzo: si parla di scontro tra civiltà nel paradigma composto da donne che lavorano e donne che accudiscono i figli delle donne che lavorano, da donne che stanno a dieta e devono tenersi lontane da un frigo pieno e donne che scappano dalla fame dai loro paesi d’origine. Ed è proprio in questi passi si contano scene esilaranti, con il piglio degli sketch di Casa Vianello.
No, non sei razzista. Questi non sono i tuoi pensieri, ma gorgoglii nella parte più buia dell’intestino quando le espressioni sottomesse delle donne risvegliano in te un antico senso di superiorità, come se la Storia tutta fosse in cucina: tu la vincitrice e l’altra, qualsiasi altra, la vinta. La nazionalità è l’unica cosa certa di quelle sconosciute, e solo al la nazionalità si collegano le altre caratteristiche: basta incontrare una brasiliana gentile che l’intero Brasile lo sia, una rumena scorbutica che lo diventi tutta la Romania, come se ogni polacca fosse “la Polacca”, ogni eritrea “l’Eritrea”, che con imperfezioni umane determina il suo intero mondo.
Il tono di Silvia Ranfagni è questo: schietto, rivelatorio, capace di instillare il germe del dubbio e della vergogna senza troppi giri di parole. La tata Elsa, che emerge dalla rutilante selezione di tate di varia provenienza con il suo portamento elegante e la sua parlantina da stazione radiofonica, è tratteggiata in modo impeccabile – il piccolo Arturo si fida di lei, le obbedisce e le si affida e noi faremmo lo stesso. Immagini solide, che provengono dalla penna già calda di una sceneggiatrice (la sua ultima fatica è a fianco di Ozpetek, e la vedremo sugli schermi a fine 2019). A Pistoia l’abbiamo sentita mettere a confronto il suo mestiere, in cui paradossalmente il linguaggio non è centrale, perché ciò che conta di più è quello che apparirà sulla scena, e questa sua prima esperienza letteraria, di cui ha apprezzato soprattutto la grande libertà dello scrittore, che può concedersi digressioni di vario tipo all’interno della narrazione.
Del lavoro con lei Claudio Ceciarelli, il suo editor, dice che si è limitato a essere, maieuticamente, da specchio, da coscienza critica, per aiutare l’autrice a tenere insieme questo testo che ha molti registri, molte voci, molte sfumature, e che è come lo vedete: un piccolo tesoro, di appena circa 150 pagine, che farà bene a tutti, mamme e non, uomini, persone con troppe sicurezze, o troppo poche.