Dicesi janara una megera, un’ anima scura che coltiva e pratica la stregoneria in alcune zone del Sud Italia.
In questo racconto, non entrato nei 12 semifinalisti del Premio Strega 2019, Licia Pizzi ci riporta in un Sud chiuso e arretrato, dove la superstizione regna sovrana e l’ignoranza dilaga imperante.
In una società così involuta, il maschilismo è dominante, due cose hanno segnato la vita della triste protagonista Grazia: nascere del sesso sbagliato, quello debole, in una famiglia povera e numerosa e non essere nemmeno baciati dalla fortuna di avere la bellezza fisica.
Grazia è destinata perciò solo a essere serva, a badare al porcile e a curarne i maiali, incurante del puzzo e delle gambe storte che affondano nella melma nauseabonda.
Una vita da trascorrere in disparte, da vivere ai margini, a servire alla tavola del ricco macellaio, signore in vista del paese, che la prende in casa come balia dell’ ultimo e fragile figlio, nato mentre la moglie muore di parto e lo lascia con gli altri due figli maschi grandi.
Grazia, in silenzio, accudisce la casa e riverisce i suoi padroni, mentre una forza oscura e innata la chiama a gran voce nel bosco, l’unico luogo dove si sente veramente se stessa.
Il pregiudizio verso il diverso permea queste pagine e una sorta d’impossibilità di riscatto, di uscire fuori da un vestito cucito addosso per l’eternità, con un filo invisibile che non si spezza, in nessun modo, è sempre viva e presente e condanna inesorabilmente Grazia e tutti gli ultimi come lei.
Grazia vorrebbe imparare a scrivere il suo nome e altre parole che le appaiono così belle da pronunciare e cariche di significato che mai sente di riuscire ad afferrare completamente e definitivamente.
Come un fiore di loto che spunta dal fango, è mai possibile che non riesca a nascere qualcosa di buono anche dalle più cupe energie di questo mondo?
Chissà, forse…
Lo scoprirete solo leggendo questa storia fino all’ultima riga e avrete magari la vostra risposta.