Per me si tratta di un escamotage collaudato ormai da anni: i romanzi di Pennac, quello della saga dei Malaussène, li compro per non leggerli subito: li metto da parte in attesa che arrivi la crisi, la carestia; sono la scorta aurea, il farmaco salvavita.
E quando poi il momentaccio arriva, mi avvicino con la noia negli occhi al mezzo metro di libri da leggere, incoccio nella costola con su scritto Daniel Pennac ed ecco che le cose iniziano subito ad andare meglio.
È passato tanto tempo dall’ultimo episodio e ho avuto il timore che tornare a leggere di Benjamin e della sua tribù non avesse più l’effetto straordinario che aveva avuto su di me a partire da venti anni fa; magari era stata una lettura ingenua che me lo aveva fatto piacere…
Invece non è così: nelle pagine c’è ancora tutto ciò che ricordavo, che avevo amato e che continuo ad amare: dialoghi perfetti, personaggi tratteggiati con maestria, nessuna pesantezza. La scrittura è così equilibrata che ti chiedi come diavolo abbia fatto Pennac, ancora una volta, a realizzarla! E il fatto che io abbia messo, in questi anni, il naso dentro i meccanismi della narrazione, me la fa apprezzare ancora di più. A leggere Pennac c’è solo da imparare, e tanto.
Quindi, Benjamin Malaussène… che cavolo avrà combinato questa volta?
Per chi non lo sapesse Ben è il classico tipo a cui viene facile dare la colpa; talmente facile che in passato ha persino lavorato come “capro espiatorio” all’interno di un grande magazzino; in questo romanzo si occupa della sicurezza degli scrittori della casa editrice Edizioni del Taglione per cui lavora.
Nel corso degli altri romanzi lo abbiamo visto alle prese con le vicende della sua strana, numerosissima, famiglia, immerso nella vita di Belleville, quartiere parigino, sempre pronto a intervenire in difesa di amici e parenti e sempre pronto a pagarne le conseguenze in prima persona.
Dopo così tanti anni ritroviamo l’intera famiglia che si è allargata alle generazioni successive (siamo alla terza generazione persino dei discendenti del cane Julius!), diventando enorme se si include tutto il corollario di amici che ruota attorno alla famiglia originaria dei Malaussène: un gruppo di personaggi talmente grande da rendere necessario l’inserimento di un repertorio all’inizio del romanzo, per ricordare i nomi, i soprannomi (di cui si fa grande uso), i legami e i ruoli di ciascuno di loro. Quindi se vi state domandando se abbia senso leggere questo romanzo senza aver letto gli altri, la risposta è sì: va da sé che ve lo godete di più se seguite cronologicamente l’intera saga (in questo caso fate attenzione perché l’ordine con cui i romanzi sono usciti in Italia è diverso da quello con cui sono usciti in Francia e la sequenza corretta è quella francese).
Per riuscire a sopravvivere al romanzo, ma soprattutto per goderselo, è necessario immergersi totalmente nella vita dei Malaussène anzi, dentro quello stesso delirio collettivo che abbraccia tutta Belleville e tutti i personaggi che in qualche modo hanno a che fare con la famiglia.
Un esempio? Ecco come la Regina Zabo, direttrice delle Edizioni del Taglione, spiega ai suoi dipendenti come intende trovare i soldi per acquisire nuovi autori:
Vendo la villa di Cap Ferrat a un malavitoso russo, vi taglio un quarto dello stipendio e poi chiediamo un prestito, dopodiché recuperiamo con gli utili. È un gioco da ragazzi!
Se accettate questo livello di pazzia, il romanzo sarà un vero spasso!
La notizia è che viene rapito l’affarista Georges Lapietà, tipo losco e spregiudicato, che si muove costantemente sul filo di lana. Che cosa chiedono i rapitori? Un riscatto “esemplare” da donare poi in beneficienza.
Per una buona metà del romanzo questo fatto rimane per lo più sullo sfondo, lasciando lo spazio a vicende minori. È così che veniamo a sapere che ciò che abbiamo letto sino a oggi, non sono fatti inventati: i romanzi precedenti non sono il frutto dell’ingegno di chissà chi; sono stati scritti partendo dagli appunti dei vari componenti della famiglia Malaussène e fatti uscire dalle Edizioni del Taglione mettendo al centro delle vicende un suo dipendente, Benjamin per l’appunto; un doppio salto mortale con cui Pennac prova a svincolarsi totalmente dalla paternità della saga.
Ma Benjamin non è il personaggio principale e, per dirla con tutta onestà, è davvero difficile parlare di protagonisti, dal momento siamo di fronte a un romanzo più che mai corale.
Si può parlare, invece, di personaggi più o meno affascinanti e in questo caso il giudice Talvern, al secolo Verdun Malaussène, è certamente quello che si eleva sopra gli altri. L’anti-fascino femminile per definizione, Verdun è una donna che per carattere, professionalità e modus operandi è qualcosa che va oltre; tutto questo le conferisce uno spessore davvero notevole: viene da pensare che sarebbe proprio bello avere tra i propri amici una donna così.
Pennac sceglie di narrare alternando tre punti di vista: una terza persona, una prima persona negli occhi di Benjamin e una prima persona nei panni di uno scrittore della scuderia del Taglione: è proprio lui che scrive il romanzo Mi hanno mentito, sottotitolo di questo romanzo che spero vi troverete presto tra le mani.
Tutto questo è finalizzato a un’architettura geniale, perfetta, che gira come un ingranaggio ben lubrificato.
Nella seconda metà del romanzo si tirano le fila della vicenda Lapietà e, manco a dirlo, tutto confluisce verso un unico punto e verso un’unica persona: Benjamin ovviamente, che per la maggior parte del tempo è stato spettatore inconsapevole.
Insomma, passano i romanzi ma i ruoli non cambiano, e questa vicenda sembra confermare la teoria.
Ma se adesso vi dicessi che non siamo che a metà della storia?
Continua…