Eh sì, per un po’ lei deve stare a riposo
Questo romanzo inizia con un’interruzione: un esame di routine rivela nel protagonista una lieve anomalia cardiaca che rende necessaria una pausa dall’attività di corsa e di nuoto che, insieme alle sue attività di ricerca e di scrittura, si spartiscono le sue giornate.
Rallentare il ritmo significa per l’uomo dedicare uno sguardo più attento alla propria vita e a quella di coloro che lo circondano; e noi intraprendiamo con lui questo cammino, infatti iniziamo a scandagliare i rapporti con la compagna e con i suoi amici, a sorseggiare spritz accompagnati da patatine e fusaglie sulle rive del Tevere, a percorrere a piedi o in scooter quel cantone di Roma che è compreso tra Villaggio Olimpico, Maxxi, Auditorium Parco della Musica, dove si è trasferito da Trieste, città d’origine.
Il protagonista del romanzo coincide con l’autore, che in un’operazione di autofiction semina briciole di vita pubblica e intima che spetta al lettore rimettere insieme in un percorso di ricostruzione. L’occhio si fa acuto sulle vite ai margini che si svolgono sulle panchine intorno ai supermercati, tra vino a buon mercato e gesti ripetitivi come la cessione della monetina del carrello della spesa: in più punti sembra che siano più coinvolgenti le vite di coloro con cui non si è mai scambiato una parola, dal senzatetto al ragazzino morto in gita, o le vicende di una potatura inaspettata degli alberi, e che il senso ultimo della nostra esistenza sia quello di resistere alle tentazioni e sfuggire agli inceppamenti del quotidiano.
In questa storia che somiglia a un diario, l’entusiasmo del narratore si accende di fronte a due diari illustri, quello di Anne Frank, scoperto in gioventù, e quello di Etty Hillesum, non meno intenso e ricco di spunti. Sembra che la vita del protagonista non si acquieti, nei suoi nuovi ritmi, ma provi imperterrita a scappare dai lati, da ogni lato: il suo spirito da esploratore del reale non si ferma davanti a niente, il tentativo di andare in profondità resiste a tutto, anche se questo significa scontrarsi con l’uomo grasso che gli fa visita di notte e gli impone un contatto fisico e mentale non sempre desiderato.
Una nota a parte la merita il rapporto con la madre, che nell’uso di Facebook ritrova uno spirito di condivisione e una socialità che sono sintomo di un impulso alla vita da non sottovalutare, anzi, da salutare con gratitudine.
Esilarante l’analisi stilistica dei suoi messaggi con le amiche
Scorro qualche messaggio di mia madre. Una messe di puntini di sospensione per scalare le asperità sintattiche,la maledetta costruzione del periodo. Non ci sono allusioni, almeno io non le colgo. Mi salta agli occhi invece un dettaglio: ne fa quattro di puntini, mai i tre canonici né i due di abbreviazione. L’unica, che io sappia, dopo Gadda nella Cognizione del dolore. Per un attimo mi penso nei panni di Don Gonzalo, le sue lamentazioni, anche lì una questione madre-figlio.
E poi
“Guarda come sono venuta qui,” mi dice.
“Bella. Ma perché sempre con gli occhiali da sole?”
In realtà vorrei dire: perché tu, che mettevi sempre la mano davanti all’obbiettivo, ora ti scatti mille autoritratti?
Tutta questa vitalità spiazza il figlio, in pochi scambi si rasenta la crisi familiare: le lacrime della madre placano il suo nervosismo, eppure è nei confronti di questa donna, che ha riscoperto l’entusiasmo dopo anni di vedovanza,e da personaggi come il barbone Arcimboldo, detentore di una storia insospettabile, che occorre drizzare le antenne: qualcosa da ascoltare c’è sempre e vale la pena di distillare certe storie per farne insegnamenti. Covacich lo sa, e al netto della forma narrativa che ha scelto di impartire al suo romanzo, oggi, continua a dimostrarsi un autore che, sia nel suo mestiere di narratore sia in quello di giornalista, è sempre capace di mettersi in ascolto e catturare l’essenziale delle cose.