Non sono una lettrice di autori contemporanei, lo confesso.
L’opportunità che la Maratona Strega mi dà è proprio quella di ovviare e rimediare a questa mancanza. Mauro Corona, l’autore, l’ho visto, anzi intravisto in TV e non pensavo che dietro a quell’aria un po’ burbera si nascondessero questo mondo raccontato con la penna intinta nell’inchiostro più cupo e tenebroso, quest’atmosfera gotica che avvolge le montagne e che nasconde segreti “sotto il pastrano ghiacciato della neve“ che tutto ricopre, ma che lì rimane e attende.
Questo non è un libro adatto ai debolucci di stomaco, vi voglio avvertire. Forse è per questo che non è arrivato tra i dodici candidati al premio. Ho ritrovato scene cruente, frutto di una realtà onirica che si appropria di quella reale, che l’ammanta fino a prenderne il posto. Anche nella crudeltà delle descrizioni e nelle riflessioni su se stesso, che l’autore fa in un soliloquio che dura quasi tutto il romanzo (non so fino a che punto autobiografiche), ci sono un lirismo e una poesia che stupiscono.
Il bosco d’alta quota si anima dei suoi abitanti terribili e ammaliatori: il pivason in primis, ma anche il ciuffolotto e il corvo. E poi lupi, martore, un piccolo verme e una cerva, sì una cerva, con i suoi occhi dolci: vengono tutti da lontano, molto lontano, e lo aiutano in una difficile opera di decriptazione e di scoperta di un mistero fittissimo, del mistero stesso della sua esistenza, del suo essere così e non in un altro modo.
È una sorta di romanzo di formazione sui generis, in età adulta, in cui l’autore, prova a ritrovarsi e a conoscere veramente se stesso, per la prima volta.