Quante persone incontri ogni giorno? Quante ne incroci, a quante sorridi, con quante ti confidi? Quante di loro hanno un peso davvero rilevante nella tua vita?
In La parola magica, il suo esordio per NN editore, Anna Siccardi trascina i suoi personaggi in debito d’ossigeno per una Milano che si mantiene sullo sfondo, mostrandoceli equipaggiati del loro esoscheletro di rapporti interpersonali. Le loro storie compongono dodici racconti che possono essere letti in modo indipendente l’uno dagli altri, ma se ti allontani di un passo senza perdere la concentrazione riesci a cogliere l’architettura di rimandi nel suo complesso e ti diverti di più.
Ti avverto però: quello che devi aspettarti è un divertimento da enigmista, una sfida a chi è più rapido a individuare legami, parentele, cause ed effetti, perché da ridere non c’è effettivamente molto, in questo libro: i personaggi sono immersi in relazioni agonizzanti, dipendenze di varia natura, silenzi, bugie e fughe in grande stile.
E allora in questo viavai incontri Irene, che non riesce a staccarsi dal vino e da Riccardo, le gemelle Chiara e Anna, col padre chirurgo plastico che per un periodo finisce in galera e sembra riscoprire una dimensione diversa della vita (ma poi torna su per giù com’era prima) e la madre terminale, assistita da Armen, una specie di sciamano che elargisce saggezze e marijuana. E Carlo, Diana, Ornella, Marta, Filippo ed Edoardo, il piccolo Giacomo e la misteriosa Bea. A parte Leo, che all’inizio del romanzo è a Tokyo (e per un pelo non ci lascia le penne, prima per una banda di ceffi che esigono un risarcimento che lui non può fornire, poi per il terremoto più forte che si sia mai registrato in Giappone), nessuno esce mai veramente da Milano.
Se tutti hanno un nome e vengono narrati per mezzo di una terza persona con focalizzazione interna, l’unico che sfugge a questo schema è il protagonista del quarto racconto, un impresario di pompe funebri che parla in prima persona e che è il vero e proprio fulcro del romanzo, perché è quello che scivola con più grazia di tutti sulla fatica immane dell’esistenza, forse perché è quello che con la morte ha a che fare ogni giorno:
Quello che mi piace del mio lavoro è che i congiunti hanno bisogno di te. Tu arrivi ed entri in queste case ovattate, dove i gesti sono più lenti e le voci più sommesse che fuori. Io la chiamo la membrana. È una consistenza dell’aria, un peso specifico che avvolge tutto.
Di solito mi offrono un caffè. Io sono molto gentile e delicato. Ho imparato a parlare pianissimo.
La parola magica esce oggi e credo che dovresti leggerlo se non ti spaventa andare a sguazzare nelle paure e nelle nevrosi, e se di una storia ti entusiasmano la struttura e la lingua più che la possibilità di empatizzare con i personaggi.