In occasione della rassegna “Sere Nere” sabato 10 febbraio Marco Malvaldi ha presentato il suo ultimo libro Negli occhi di chi guarda (Sellerio); e lo ha fatto in uno splendido Teatro Roma, vero e proprio scrigno di Castagneto Carducci, stracolmo di un pubblico maturo-geriatrico con l’unica eccezione di mio nipote, Giuseppe, un liceale che nel prossimo compito in classe dovrà scrivere un giallo partendo da una traccia assegnata dall’insegnante.
Introdotto dalla giornalista Elisabetta Cosci e da Massimo Paganelli (ex direttore di Armunia, più noto al grande pubblico come “Aldo”, uno dei tre vecchietti del bar Lume nella serie prodotta da Sky), Malvaldi ha esordito con una nota di viva commozione motivando la dedica del libro al padre, che non l’ha letto perché deceduto prima della pubblicazione. La figura del genitore, definito “suo editor privato”, è stata tratteggiata con vari episodi che hanno fatto trasparire l’affetto che legava i due, ma soprattutto la gratitudine per avergli trasmesso la capacità di raccontare.
A questo punto Malvaldi ci ha dato la prima lezione su come si scrive, con questo aneddoto:
«Il babbo raccontava di quando i nonni partirono da Pisa per andare a Livorno per un importante torneo di briscola… in lambretta,» il pubblico comincia a ridere qua e là. «E vinsero il primo premio. Un maiale. Vivo!» Tutto il teatro ride.
«Uno scrittore non ha bisogno di scrivere molto, lascia all’immaginazione del lettore. L’unico dettaglio da aggiungere è che finirono la miscela a Stagno.» Un boato.
Come ogni buon incipit cattura il lettore, così Malvaldi ha catturato la platea, e ha continuato inframezzando qualche considerazione personale a tanti episodi della sua vita. La scelta dell’ambiente dove si svolge la vicenda del libro, Castagneto Carducci, è associata alla magia del periodo del suo innamoramento per quella che poi diventerà la moglie che viveva in quella zona e che lui andava a trovare in treno. Quel viaggio era pieno di aspettative.
Così è passato alla seconda lezione: lo scrittore non inventa niente, rielabora la realtà.
Con altre pennellate ha descritto la sua famiglia in cui oltre al padre, rettore della facoltà di medicina, e la madre, insegnante, anche la colf aveva studiato: era un’ucraina, ingegnere minerario, e sapeva riparare i boiler. In un ambiente così stimolante era naturale crescere e laurearsi in chimica, fare il dottorato e iniziare a scrivere per mantenere la “salute mentale” tra tanti numeri. E, poiché i cromosomi non sono caccole, ci ha raccontato le domande che suo figlio, di quattro anni, gli ha posto quando si sono trovati insieme davanti a un’opera d’arte a Roma.
La conversazione è proseguita toccando argomenti di medicina, di ping pong, naturalmente di chimica, di poesia e, ciliegina sulla torta, il mitico Borzacchino. La platea era incantata. Era come se fossimo diventati tutti amici, con gli stessi interessi; come se ci fossimo ritrovati intorno ad un tavolo imbandito, dopo tanto tempo, e ci fossimo rimessi in pari con gli episodi della nostra vita. Solo mio nipote aveva cominciato ad annoiarsi, ma al terzo sbadiglio l’ho congelato con lo sguardo.
Prima di uscire, con il libro appena acquistato, ho chiesto a quello che ormai potevo chiamare familiarmente Marco di fare una dedica a Giuseppe, spiegandogli il problema scolastico.
Ha scritto: A Giuseppe che deve uccidere qualcuno perché glielo ha ordinato il professore.
Grazie Marco! Questo sarà l’incipit, il morto sarà l’insegnante di lettere, e come ispettore potremmo chiamare Maigret. Cosa ne pensi?
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