Certe volte è bene mettere subito le cose in chiaro, e questa è una di quelle: queste poche righe, e le parole che riuscirò a scegliere, non basteranno.
Non basteranno a rendere il senso e il valore di questo romanzo, a trasmettere ciò che vorrei dire.
Ho girato da una mezz’ora l’ultima pagina e sono qui che mi chiedo “Ma che diavolo ho letto?”
Provo.
Primi anni del 1800, alla locanda Almayer, in riva al mare, arrivano clienti giunti in quel posto per ragioni diverse. La locanda si trova vicino al mare, è vero, ma è tutt’altro che un luogo di villeggiatura: è, anzi, un posto remoto, affascinante per certi versi, battuto da un vento che soffia sempre da nord, sperduto ma non impossibile da raggiungere.
Chi si appresta a soggiornarvi capisce subito di trovarsi in un luogo assurdo; la locanda è abitata e gestita da bambini e il mare, l’oceano mare, detta la vita e ritmo della locanda, e non solo.
C’è chi si trova lì per guarire, chi per fare ricerche e chi solo per dipingere; ognuno ha la sua storia da consegnare al mare e in esso trovare risposta. Sono lì per questo: tutti aspettano una risposta.
E sarà proprio così; dopo la locanda e dopo quel mare le vite dei personaggi cambieranno, e per sempre.
Avevo sentito parlare bene di questo romanzo e, come si confà, primi di iniziare a leggerlo, ho caricato il mio scetticismo a pallettoni; poi l’ho letto e ora sono pronto ad affermare che è vero, avevano ragione: ha qualcosa di speciale, qualcosa che va oltre.
È un romanzo magico, perché magici sono i suoi personaggi, magico è il posto in cui è ambientato e magico è il linguaggio con cui è scritto. Trasuda poesia, scrittura eccellente. E non aggiungerò altro su questo, sullo stile, sulla capacità di cambiare registro… leggete questo romanzo e capirete di cosa parlo e perché non riesco a dirlo.
Il mare come unica risposta, panacea di tutti i mali, oracolo. Nelle parole che Ann Deverià, una cliente della locanda, pronuncia in riva al mare, c’è tutto il senso:
Sarebbe un rifugio perfetto. Invisibili a qualsiasi nemico. Sospesi. Bianchi come i quadri di Plasson. Impercettibili anche a se stessi. Ma c’è qualcosa che incrina questo purgatorio. Ed è qualcosa da cui non puoi scappare. Il mare. Il mare incanta, il mare uccide, commuove, spaventa, fa anche ridere, alle volte, sparisce, ogni tanto, si traveste da lago, oppure costruisce tempeste, divora navi, regala ricchezze, non dà risposte, è saggio, è dolce, è potente, è imprevedibile. Ma soprattutto: il mare chiama. Lo scoprirai Elisewin. Non fa altro, in fondo, che questo: chiamare. Non smette mai, ti entra dentro, ce l’hai addosso, è te che vuole. Puoi anche far finta di niente, ma non serve. Continuerà a chiamarti.
Un elogio del mare quindi, che invoca rispetto ma che può dare la pace; nel mare ci si perde ma ci si ritrova, è ira e quiete struggente.
E i personaggi. Uno più bello dell’altro! Andate e ritorni con al centro cambiamenti enormi, rivoluzionari, ognuno con il suo passato, il suo presente e il suo futuro; c’è persino lo spazio per dare parola e merito a Dio, giusto per fargli dire “Diavolo!”.
Alla locanda tutto è possibile, per merito e colpa dal mare, che è tutto il male e tutto il bene possibile, che è infinito, che tutto placa e assolve, lenisce e addolora, confonde e schiarisce; il mare, osannato come un Dio e devastante come un Diavolo, appunto.
E dopo tutto il cuore che questo romanzo ha preteso, per essere letto, perché si riesce ad attraversare tutto lo spettro delle emozioni possibili, viene voglia di ridere.
Baricco lo sa, e ci accontenta accompagnandoci nel fantastico mondo di Bartleboom, un tizio in cerca dei limiti naturali. Cambia la scrittura (fantastico!) cambia il clima, cambia tutto per farci tirare un po’ il fiato; ma questo romanzo non potrebbe finire così, con una risata. Vorrebbe dire snaturarsi, cambiare pelle con un tocco di bacchetta, sarebbe come tradire il lettore.
Così mi preparo alle ultime venticinque pagine, immaginando che dovrò ancora dare qualcosa.
Ed è così. Arrivano le ultime risposte, si chiudono cerchi, tutto in un modo o nell’altro va al suo posto. Non poteva che finire così.